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Il numero 11

2025-08-04 11:51

la redazione

Osservatorio Granata, torinofc, DNA GRANATA, Paolo Pulici,

Il numero 11

Pulici: l’uomo che fece innamorare una generazione

ORGOGLIO E POLVERE

Tra eroi indimenticati e sogni traditi

 

Questa è la nostra terra di mezzo, sospesa tra ciò che siamo stati e ciò che non siamo più.

“Orgoglio e Polvere” è il luogo dove i campioni indimenticati del Toro tornano a vivere e dove, allo stesso tempo, la realtà di oggi mostra tutta la sua fragilità.

Qui si parla di storia, di leggenda, di passione vera. E qui si giudica senza sconti una gestione che ha spento i sogni di un popolo.
Perché ricordare non è nostalgia: è resistenza.

 

Pulici: l’uomo che fece innamorare una generazione

(Orgoglio e Polvere – Tra eroi indimenticati e sogni traditi)

Se oggi chiedi a un bambino di otto anni chi sia l’idolo del Toro, ti guarda perplesso.

Forse ti dice un nome a caso, uno di quelli che passa in panchina come l’acqua tra le dita.

Negli anni Settanta, invece, non c’era dubbio. Paolo Pulici. Il numero 11. Il Puliciclone.

Per una generazione intera è stato l’inizio di tutto: la prima sciarpa, la prima domenica in curva, il primo sogno di diventare granata.
A lui dobbiamo non solo gol e scudetti, ma qualcosa di più grande: la scelta di una fede.

Quando arrivò al Toro nel 1967, era un ragazzo timido, spaesato, che faceva fatica a controllare la sua velocità e a gestire il pallone.
Ma Pianelli e Radice (e Giagnoni prima di lui), seppero aspettarlo, e lui seppe crescere.

Quella attesa ha ripagato tutto: Pulici è diventato il simbolo perfetto di ciò che significa portare la maglia granata.
Fatica, umiltà, coraggio. E, quando serve, bellezza.

Con Graziani formò una coppia che fece tremare l’Italia. Gol a grappoli, il sogno dello scudetto che nel 1976 si trasformò in realtà. Ma non era solo una questione di reti: Pulici segnava e correva sotto la Maratona, con i suoi pugni al cielo abbracciava il popolo, si lasciava travolgere da quella marea di amore come se lui fosse uno di noi.

E, in fondo, lo era.

Paolo Pulici è stato molto più di un attaccante, era più di un poster appeso su un muro, anche se per anni, a fianco al mio letto, ha capeggiato la foto del suo gol di testa in tuffo all’ultima giornata del campionato dello scudetto con tro il cesena, con Danova a guardarlo a quel tempo da avversario, tra lo sconsolato e il sorpreso.

  In quegli anni, il Toro era il Toro anche grazie a lui.
La sua figura era magnetica: bastava vederlo giocare perché migliaia di bambini scegliessero il granata.

Le scuole calcio di tutta Italia si riempirono di maglie numero 11, comprate o cucite a mano dalle mamme.

Lui non aveva bisogno di sponsor o social. Era l’immagine stessa del club: spirito combattivo e appartenenza.

Se oggi esiste ancora un orgoglio granata che resiste, è anche merito suo.

Poi, apriamo gli occhi sul presente ed osserviamo:
negli ultimi vent’anni, quanti calciatori hanno indossato quella stessa maglia?

Un elenco interminabile, un carosello di nomi che, dopo qualche stagione, scompaiono senza lasciare traccia.

Giocatori di passaggio, semi-calciatori, professionisti senza anima.

Hanno vestito il granata come si indossa una giacca a noleggio, pronti a restituirla appena finito l’evento.

Nessuno di loro ha saputo accendere un bambino, creare un modello, far crescere la passione.

Il Toro è diventato una squadra senza volto. Non ci credete? Eccovi le prove:

Stjepan Gojak

Magnus Warming

Demba Seck

Brian Bayeye

Kevin Haveri

Sono solo alcuni degli acquisti del direttore sportivo che gestisce il futuro (?) sportivo (?) della nostra squadra. Ora ditemi: Voi la comprereste una maglia con questi nomi stampati sopra? La regalereste a vostro figlio?

Io ho regalato a mio figlio la maglia di Belotti, pur sapendo che non sarebbe mai diventato una bandiera, troppo forte per questa società, troppo alto, tanto da far ombra al presidente, ma la maglia è ancora li, in un cassetto a casa, con il suo autografo sul nove. Avrei magari anche regalato quella di Cerci, e forse anche quella di Immobile. Anzi, no, quella di Immobile no, ha passato troppo tempo nelle giovanili di quegli altri, si vedeva che era solo di passaggio, si sapeva che lui stesso non voleva che qualcuno “gli tarpasse le ali”, neppure dopo il tonfo in Germania.

 

Il problema non è il destino: è la gestione.

Tutto questo non è sfortuna.

Tutto questo è il frutto di una gestione societaria miope e rinunciataria. Anno dopo anno, si è smesso di progettare, si è smesso di rischiare, si è smesso di voler vincere.

E allora non stupisce se il Toro, oggi, non costruisce più campioni né bandiere. Perché non c’è visione, non c’è ambizione: c’è solo la paura di alzare la testa.

Una paura che, per chi ama il Toro, è inaccettabile.

C’è poi un’ombra più fastidiosa, che serpeggia da anni e che nessuno osa affrontare apertamente: le connessioni, neanche troppo virtuali, tra questa gestione e l’altra squadra della città.

Si parla di rapporti, di convenienze, di equilibri da non disturbare. E allora tutto diventa chiaro: non disturbare i poteri forti, non provare a insidiare il loro predominio, non provare a rialzare la testa.

È un Toro che sembra preferire il ruolo di comprimario, una comparsa silenziosa nella città che dovrebbe invece scuotere.

Eppure, la risposta è davanti agli occhi di tutti:
serve un Pulici. Serve il suo spirito.

Non basta una maglia: ci vuole qualcuno che entri in campo per rappresentare un popolo. Qualcuno che sappia fare innamorare un bambino, qualcuno che insegni che essere del Toro è una scelta di carattere.

Pulici non era perfetto. Sbagliava gol facili, correva come un matto, si buttava dove altri avrebbero rinunciato.
Ma era lui, lui era il Toro!

E la sua voglia di lottare trasformò una squadra in un simbolo.

Oggi, invece, siamo prigionieri della mediocrità.

I numeri di bilancio vanno bene, o almeno ci viene continuamente detto questo, anche se la proprietà si fa prestare dei soldi dalla banca ifis (andate a cercare che è il socio di riferimento) o si fa prestare i soldi da una azienda di sua proprietà. Per comprendere questo ragionamento, vi chiedo di fare un test: mettete 10 euro nella tasca sinistra dei pantaloni, fatto? Bene, ora spostateli nella tasca destra e poi, quando li riponete nuovamente nella tasca sinistra, sono diventati magicamente 10 euro e sessanta centesimi? Ha funzionato con voi? Beh, non vi crucciate se voi continuate ad avere solo 10 euro che girano da una tasca all’altra, non siete dei maghi!

In realtà anche se siamo campioni del bilancio, leggo che ci sono iscritti a bilancio dello scorso anno dei debiti per oltre 130 milioni di euro. Ma non parliamo di soldi: noi siamo i poveri della città, noi siamo gli indiani, noi siamo quelli abituati a lottare per ottenere qualcosa, non ci serve “vincere perché è l’unica cosa che conta”.

Ma l’anima?

Quella è stata smarrita.

E senza anima, non esiste futuro.

Il Toro non può tornare agli anni Settanta, e neppure agli anni Ottanta, ma può scegliere se continuare a essere un’ombra o tornare a essere una bandiera.

Per farlo serve coraggio. Serve dire basta a una gestione che, da troppi anni, si accontenta di sopravvivere, e serve tornare a cercare giocatori che abbiano il coraggio di rappresentare una maglia.

Perché il Toro non è un’azienda: è un popolo, e il popolo, a volte arriva a far perdere la testa.

«Est-ce vrai, Marie-Antoinette ?»

 

Nota dell’autore

Sono Flavio Cassine: imprenditore in giro per il mondo, formatore con la passione per la scrittura. Ho pubblicato romanzi a mio nome e altri come ghostwriter, ma il filo che mi lega al Toro nasce prima di tutto in famiglia.

Sono granata perché sto sempre “dalla parte degli indiani”, dalla parte di chi non si piega. Amerò per sempre chi ha il coraggio di alzare una sedia – come fece Mondonico in quella maledetta finale di coppa – contro il potere e contro la sfortuna.

Questo spazio è la mia sedia alzata.

Osservatorio Granata

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