La Fede Granata
Per raccontare, o forse è meglio usare il termine spiegare, cosa sia davvero la fede granata, bisogna partire da un uomo. Non famoso, un uomo normale, come tanti altri tifosi granata. Quell’uomo, nel febbraio del 2010, è ricoverato in terapia intensiva. Ha quasi ottant’anni e tutti lo chiamano “il Dutur”, anche se il suo vero nome è “Chino”.
La sua ultima partita vista allo stadio risale al 24 maggio 2009. Dopo anni di assenza forzata per motivi di salute, quel giorno aveva deciso di tornare in curva Maratona. Non da solo: chiese a suo figlio e ai due nipotini di accompagnarlo, con la speranza che potessero assaporare anche loro una gioia (relativa) che mancava da troppo tempo. Ci credeva nella salvezza, il Dutur. Un vero granata non spera: crede. Anche quando non c’è nulla da credere.
“Chino” aveva ereditato questa fede da suo padre, Lorenzo, granata anche lui. Un uomo temprato dalla vita: era riuscito a fuggire da un treno nazista che lo stava deportando. Lorenzo era solito portare il figlio quindicenne allo stadio per vedere gli “Invincibili”. Che anni, quelli del dopoguerra, per un tifoso del Toro. Anni in cui il calcio era tutto: sogno, riscatto, passione pura.
Ma il fato del tifoso granata è segnato. Come se dovesse sempre pagare un tributo. È un destino che schiaccia, sì, ma allo stesso tempo fortifica. E proprio da lì nasce quella che si chiama fede granata.
Se hai visto Valentino, se hai amato quella squadra, se hai goduto di quelle “oneste” vittorie, nemmeno la tragedia più grande può spegnerti dentro. Lo spirito granata ti resta nel sangue. Non ha a che fare con una partita, con un risultato, con un giocatore. È qualcosa che va oltre. È identità. È DNA.
Ma il fato non ha mai smesso di chiedere il conto per quella squadra perfetta, troppo bella, troppo avanti per il suo tempo.
Anni dopo, il prezzo da pagare prese le ali leggere e tragiche della 'farfalla granata', che volò via troppo presto per raggiungere gli Invincibili, là dove solo le leggende possono ritrovarsi.
Ma almeno, il 22 ottobre 1967, il destino ha concesso un respiro. Uno solo, ma profondo.
O forse è stata la rabbia, per una volta, a vincere sul dolore. Una settimana dopo un’altra tragedia, il Toro sconfigge i “cugini” in maniera leggendaria. Quel giorno, il Dutur non piange. Non è il tipo. Lui bestemmia, come era solito fare. E quel giorno, non credo che sia rimasto un solo santo risparmiato tra gli spalti.
Inciso doveroso: “Quelli non sono miei cugini. E quella non è affatto una ‘vecchia signora’, è solo una grande p.....”, diceva sempre il Dutur. E mi fermo qui, perché il resto “noi del Toro” lo sappiamo.
È in quel lungo periodo buio, dopo Superga, che nasce il concetto di “tremendismo granata”. Una simbiosi tra tifoso e giocatore, uniti nel destino balordo, un’energia che ancora oggi cerchiamo, ma che spesso ci sfugge o sfugge a chi dovrebbe interpretarla non solo in campo, ma soprattutto fuori.
Giorgio, Aldo, Angelo, Natalino, per citare i primi che mi vengono in mente (ma chiunque entrava nello spogliatoio del Fila doveva esserne degno e dimostrare di esserlo), insieme a tutti gli altri di quegli anni leggendari, rappresentano lo spirito ideale e fiero, che si tramanda di padre in figlio ancora oggi. Tutti quegli uomini (li possiamo definire anche giocatori, ma solo dopo che hanno dimostrato di essere per prima cosa uomini) hanno riportato il Toro a lottare, con lo spirito prima ancora che con i piedi. Perché il tifoso granata non vuole vincere “ad ogni costo”. Anzi, del “costo” non gliene frega niente. Vuole lottare. Vuole rispetto. Vuole che chi entra in campo contro il Toro sappia che dovrà sputare sangue per provare a farci gettare la spugna. Che non getteremo mai.
“El Cabezon”, nei derby, si tirava su i calzettoni e metteva i parastinchi. Poi Giorgio, comunque, lo rincorreva lo stesso per il campo, prendendolo a calci nel culo.
“Marisa” odiava i derby. Li avrebbe odiati per tutta la vita. Abituato com’era a ricevere inchini al posto di contrasti, trovava insopportabile chi lo guardava negli occhi senza paura.
Il Dutur (che rappresentava un tifoso granata qualunque, non era speciale nel concetto filosofico del tifoso del Toro, era uno dei tantissimi) si riconosceva in quello spirito. Era la sua rivincita contro un destino granata che non gli aveva regalato nulla, ma che non era riuscito a togliergli l’orgoglio di essere granata. E come lui, migliaia di altri tifosi veri.
Lo spirito granata si è temprato anche per contrasto. I “lamiera” avevano (eh sì, lo hanno ancora purtroppo, lo sappiamo bene) un concetto preciso del “ad ogni costo”, dove il “costo” è proprio il nome comune di cosa, poco sportivo. "Costo", in questo caso, indica il valore monetario di qualcosa.
“La loro bandiera è un certificato penale”, diceva il Dutur. E non c’era ironia: era una convinzione profonda, un’amara constatazione. Ma questo, un tifoso del Toro non ha bisogno che glielo spieghino. È lui che può spiegarlo agli altri. A quelli che sono ancora ostaggi dell’omertà mediatica, ieri come oggi.
Immagino, il Dutur, quel 12 marzo 1972 a Genova. Me lo vedo come in un film: sigaretta stretta tra le dita, rabbia negli occhi, bestemmie sussurrate tra i denti, e quella passione viscerale che solo un vero granata può conoscere. Perché quella, alla fine, è fede. Non la scegli: ti nasce dentro, ti cresce addosso, ti plasma.
Ci credevano davvero, allo scudetto. Loro, che avevano affrontato la trasferta a Genova contro quelli con la maglia da ciclisti, portavano nel cuore una speranza autentica.
In panchina c’era lui, l’uomo col colbacco. Uno che incarnava perfettamente l’anima granata: dura, sincera, battagliera. Un uomo che, senza bisogno di spiegazioni e con tutta la rudezza che serve, ricorderà al Barone che il Toro non si piega, non si nasconde e affronta chiunque a testa alta, anche e soprattutto “la gheba”.
Alla ripresa degli allenamenti, al Filadelfia, dopo il derby perso 1-0, si presentano tremila persone festanti. Non per criticare, ma per ringraziarlo. Perché avevano capito la tempra dell’uomo, vera e sincera. E tanto gli bastava.
Ma torniamo a Genova. Quel giorno, sotto un cielo spento e bagnato, si consuma un delitto. Un delitto sportivo, silenzioso, ma irreparabile. Tifosi, giocatori e allenatore non sanno che quel giorno non affronteranno solo la squadra avversaria: c’è un sicario in campo. Uno che si sostituisce al destino.
Barbaresco. Un nome che dovrebbe evocare il profumo intenso di un vino pregiato da sorseggiare accanto al camino. E invece no. Quel giorno, è solo aceto versato su una ferita aperta.
Un fischio qui, uno là, e poi il colpo finale. Il risultato viene assassinato sotto gli occhi di tutti, in una pozzanghera dentro la porta. E con esso muore anche il sogno. Lo scudetto svanisce, non sul campo, ma per mano di un destino camuffato da arbitro.
Il Dutur mica lo affossi così. Lui ci crede e ci crederà sempre.
Perdi uno scudetto, perdi una partita, ma non si perde la fede.
È incazzato come una biscia, ovviamente. Ma crede nel futuro, ha la fede granata che è un fuoco sacro che non si può spegnere. Prima o poi….. lui ci crede.
Lui va sempre al Fila e lì c’è un ragazzo che si allena con i grandi. Lui ne vede un predestinato.
Caso vuole che si chiami come suo figlio. Lui lo difende sempre, allo stadio e al Fila. È un ciclone, ma sbaglia tanti gol, è irruento, è istintivo.
"A l'é nen bon col-lì", i vecchi del Fila sono tremendi. Il tifoso del Toro è ipercritico, non lo conquisti gratis. Ma lui vede, anzi crede, perché credere, come detto, è una fede, in quel ragazzo. Avrebbe avuto ragione.
Per Natale, il Dutur mette sotto l’albero, per suo figlio Paolo, la maglia di quel ragazzo del Fila. Ha iniziato a portarlo allo stadio a otto anni, perché certi amori si tramandano con un gesto semplice e perché è così che si comincia a diventare Toro.
Il ricordo di quella mattina è indelebile nella mia mente: sotto l’albero, avvolta in una luce che sapeva d’amore e radici, c’era la maglia di Pupi. Era più di un dono: era un destino."
Il figlio del Dutur sono io.
Fine prima parte
[continua]
autore: Romo
Osservatorio Granata
