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Tra eroi indimenticati e sogni traditi

2025-07-29 06:41

la redazione

CALCIO,

Tra eroi indimenticati e sogni traditi

ORGOGLIO E POLVERETra eroi indimenticati e sogni traditi

ORGOGLIO E POLVERE

Tra eroi indimenticati e sogni traditi

Questa è la nostra terra di mezzo, sospesa tra ciò che siamo stati e ciò che non siamo più.

“Orgoglio e Polvere” è il luogo dove i campioni indimenticati del Toro tornano a vivere e dove, allo stesso tempo, la realtà di oggi mostra tutta la sua fragilità.

Qui si parla di storia, di leggenda, di passione vera. E qui si giudica senza sconti una gestione che ha spento i sogni di un popolo.Perché ricordare non è nostalgia: è resistenza.

Ed eccomi qui, attaccato alla tastiera a scrivere qualcosa di appassionante, o meglio: a scrivere di qualcosa che mi appassiona. Scrivo sempre con questo obbiettivo: scrivere qualcosa di appassionante, per me, e anche per chi legge. Ora, con una speranza in più: che questi miei scritti possano essere la scintilla che accenda ancora di più la passione che alberga nei vostri cuori. Granata.

Cuori Granata, in questi anni martoriati, cuori affranti ma non infranti. Cuori pronti a battere nuovamente con rinnovato vigore, non appena ve ne sarà nuovamente l’opportunità.

Orgoglio e polvere, perché, mai come in questi ultimi 25 anni, il nostro orgoglio granata si è dovuto coprire di polvere, il fuoco granata che arde in ognuno di noi è quasi spento, è ridotto al lumicino, ma basta un po' di vento, una brezza soave, per poter infiammare nuovamente, spazzando via la polvere che ci ricopre!

Questo è il mio primo articolo scritto per Osservatorio Granata, spero che possa diventare un appuntamento costante, starà a voi, miei cari cuori granata, valutarlo.

Un cuore granata a Barra de Tijuca

Barra de Tijuca, estate del ’95. Forse era il ’96, a dire la verità, il tempo, quando si parla di Toro, si mescola con le emozioni.Rio de Janeiro era un mare di luce e di suoni, lo era sempre, e lo è tuttora, ma quel giorno successe una cosa particolare. Ero in vacanza, e dopo qualche giorno passato a Rio, stavamo preparandoci, io e i miei amici, a proseguire la nostra vacanza in Brasile, la destinazione seguente sarebbe stata Porto Seguro, Camminando sulla “calçada” della Avenida Lucio Costa, mi trovai ad osservare un tizio che stava venendo verso di me corricchiando. I suoi movimenti erano lenti ma decisi, sicuri, aveva un aspetto vagamente famigliare. Come se lo avessi già visto. Di primo acchito non vi feci caso, su quel lungomare, dopo alcuni giorni, cominciavi a riconoscere gli “habituè”, quelli che correvano o camminavano velocemente per tenersi in forma. Eppure…

Eppure questo qui che mi stava venendo incontro mi era davvero famigliare… più si avvicinava, più mi incuriosivo…

Alla fine, lo riconobbi: Leovegildo Lins da Gama Júnior.

Il nostro Junior.

Lo avevo visto mille volte, ma solo in televisione, alla domenica sportiva o a novantesimo minuto o, più semplicemente, allo stadio. In quegli anni in cui non c’erano highlights pronti a portarti i sogni sullo schermo. Per noi ragazzini granata, lui era un dio gentile venuto dal Brasile per insegnare che il calcio può essere arte anche quando indossi una maglia che non è di moda.

Nessun tappeto rosso, nessun addetto stampa, nessun clamore: lui, con un sorriso largo come il Maracanã, e io, impacciato, a pochi passi.Non avevo parole. Il cuore batteva forte, e in quel momento, tutte le frasi preparate nella testa – “sei stato un simbolo”, “grazie per ciò che ci hai regalato” – sparirono.Riuscii soltanto a dire: «Forza Toro!».

Lui mi guardò, e con quella calma che solo i grandi hanno, mi restituì un sorriso sincero:

«Sempre forza Toro», disse.

Poi riprese a correre lentamente, e io restai lì, fermo, col sole negli occhi e una felicità infantile che non mi ha più lasciato.

E li, in quel momento, mi tornarono alla mente centinaia di ricordi.

Junior arrivò a Torino nell’estate del 1984. Veniva dal Flamengo, aveva già vinto tutto: campionati, Coppa Libertadores, Coppa Intercontinentale. Era uno dei terzini sinistri più forti al mondo, elegante e intelligente, campione affermato e già idolo in Brasile.

Eppure, quando mise piede a Torino, la prima cosa che disse alla società fu una richiesta insolita:

“Non voglio più giocare in difesa. Voglio giocare a centrocampo.”

Non era un capriccio: era il sogno di un artista del pallone. Aveva passato tutta la sua carriera a spingere dalla fascia, a coprire chilometri, a servire i compagni. Ora voleva essere nel cuore del gioco, toccare più palloni, guidare il ritmo della squadra.

Il Toro lo accontentò, e fu una delle decisioni più belle di quegli anni. Junior divenne un regista, un faro: non il numero 10 classico, ma un centrocampista moderno, elegante e carismatico. Il nostro indimenticabile numero 5.

Con lui, il Toro tornò a respirare aria internazionale. Non eravamo una squadra imbattibile, ma eravamo vivi.Quel periodo – l’85, l’86, l’87 – è rimasto nel cuore di tanti tifosi. La Maratona si riempiva di entusiasmo, perché quando Junior toccava la palla, qualcosa succedeva sempre.I suoi lanci millimetrici, le punizioni che si piegavano nell’aria come fossero disegnate, i dribbling calmi che mandavano fuori tempo gli avversari.

In campo non urlava, non gesticolava. Comandava con la semplicità di un sorriso.

Fu decisivo in tante partite, tra derby vinti e sfide di alta classifica. E anche se lo scudetto non arrivò mai, con lui il Toro tornò a essere rispettato.

Junior, in granata, ci insegnò una lezione che oggi sembra dimenticata: si può essere grandi senza essere arroganti.I ragazzi che allora riempivano il Filadelfia per vedere gli allenamenti – e io ero uno di quelli – lo ricorderanno sempre disponibile. Ti guardava negli occhi, ti sorrideva. Ti faceva sentire parte di qualcosa.

Lasciò Torino nel 1987, quando il ciclo stava finendo e si stava preparando a tornare in Brasile per chiudere la carriera, non prima di aver fatto ancora un paio di anni a Pescara, facendo innamorare anche i tifosi pescaresi con le sue giocate. Ma la sua impronta rimase, sia da noi, che da loro.

Per noi, tifosi granata che in quegli anni avevamo bisogno di eroi, Junior era il segno che anche noi potevamo sognare.

E oggi?

Oggi sembra tutto un’altra storia.

La maglia granata è ancora lì, ma è come se fosse stata svuotata.Le parole “Sempre forza Toro” pronunciate da Junior su una spiaggia brasiliana pesano come un macigno sul presente. Vero, sono sul colletto delle maglie dei giocatori, sono negli hashtag dei social media, la società di adesso “sbandiera” queste tre parole in ogni momento, facendogli perdere significato. Dove sono oggi la fierezza, la visione, il coraggio?

Sotto la gestione attuale, il Toro è diventato un’azienda in attesa del dividendo: conti in ordine, sì (ma neanche tanto!), ma ambizioni in saldo. Non c’è più l’odore di battaglia, solo quello del quieto vivere.

Siamo diventati una squadra che sembra quasi chiedere scusa per disturbare chi comanda in città.

Il presidente, Urbano Cairo, è un imprenditore che sa proteggere i suoi equilibri, non il nostro orgoglio. E in questa prudenza, anno dopo anno, il Toro ha smesso di essere un problema per gli altri. Ma anche, e soprattutto, per sé stesso.

Quel giorno a Barra de Tijuca ho capito una cosa: noi tifosi viviamo di simboli, di gesti semplici che durano più delle classifiche.Junior non ha fatto un discorso, non mi ha parlato di trofei o di vittorie. Mi ha solo guardato e detto: «Sempre forza Toro».In quelle tre parole c’era tutta la differenza tra ciò che eravamo e ciò che stiamo rischiando di dimenticare.

Perché il Toro è sempre stato questo: passione senza compromessi.E forse basterebbe tornare a guardare negli occhi chi porta quella maglia per capire che dietro i numeri di bilancio ci sono storie, vite e sogni.

Nota dell’autore

Sono Flavio Cassine: imprenditore in giro per il mondo, formatore con la passione per la scrittura. Ho pubblicato romanzi a mio nome e altri come ghostwriter, ma il filo che mi lega al Toro nasce prima di tutto in famiglia.

Sono granata perché sto sempre “dalla parte degli indiani”, dalla parte di chi non si piega. Amerò per sempre chi ha il coraggio di alzare una sedia – come fece Mondonico in quella maledetta finale di coppa – contro il potere e contro la sfortuna.

Questo spazio è la mia sedia alzata.

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